Dentro la poesia (7): Italo Testa – Poesia e conoscenza

Italo Testa (Castell’Arquato, 1972) poeta, saggista, traduttore, insegna filosofia teoretica e teoria Critica presso l’Università di Parma. Le sue ricerche recenti si occupano delle nozioni di riconoscimento, seconda natura, anafora e ripetizione. Tra le sue pubblicazioni poetiche: La divisione della gioia (Massa 2010); Tutto accade ovunque (Torino 2016); L’indifferenza naturale (Milano 2018); Teoria delle rotonde. Paesaggi e prose (Livorno 2020); Autorizzare la speranza (Novara 2023).Tra le sue pubblicazioni filosofiche: Ragione impura. Una jam session su metafisica e immaginazione (con R. Genovese, Milano 2006); La natura del riconoscimento (Milano 2010). Ha curato, con Fausto Caruana, Habits (London 2020).

Teroni

In Autorizzare la speranza tu scrivi “l’idea della poesia è una critica dell’idea di verità piuttosto che un’altra formula positiva per essa”. Puoi approfondire questo concetto?

Testa

In Autorizzare la speranza affronto questo rapporto tra poesia e verità, per dirla con Goethe, e quindi anche il rapporto tra poesia e filosofia, che si sono scontrate e incontrate su questo terreno, soprattutto nella misura in cui il discorso poetico è stato tacciato, a partire da Platone, di avere a che fare con l’inganno o con l’apparenza, quindi con qualche cosa che è piuttosto illusorio che veridico. L’idea che cerco di sviluppare è che, da un lato, il problema non è tanto di contrapporre una verità della poesia a una verità degli altri discorsi. E neanche semplicemente quello di negare il rapporto che la poesia ha con la dimensione fenomenica, la dimensione dell’apparenza e anche dell’apparire, perché credo che, in un certo senso, la poesia abbia una certa tendenza a salvare i fenomeni o dire la verità dell’apparenza, la verità dell’inganno, la verità di ciò che si manifesta, che appare. L’idea è quella di un approccio obliquo al vero, vale a dire che il discorso poetico, piuttosto che presentarci una verità alternativa, metta in discussione (in questo senso è una critica all’idea di verità) l’approccio frontale alla verità, che la riduce a una corrispondenza a stati di cose o che fa del vero qualche cosa di tematico piuttosto che qualcosa che attraversa l’apparire. Ecco quindi, in un certo senso, il nodo è il confronto tra poesia e conoscenza, e la rivendicazione che il discorso poetico non è estraneo al dominio del vero ma, appunto, vi può arrivare con una intentio obliqua, e quindi con tutta una serie di strategie, modalità che ne attraversano una dimensione sfaccettata. In un certo senso la poesia è anche una critica all’idea dell’unicità del vero. Vale a dire all’idea che il vero si dica in un solo modo. Mentre invece credo che i discorsi poetici abbiano a che fare, se non con la doppia verità, con il fatto che l’esperienza della verità si moltiplica, si pluralizza e ha a che fare con vari ambiti del nostro vivere, del nostro agire.

Quello che dici mi fa pensare a una frase di Céline che dice riguardo un bastone immerso nell’acqua, “perché appaia dritto bisogna spezzarlo un pochettino prima di immergerlo, deformarlo preventivamente, se così si può dire. Un bastone regolarmente diritto invece, immerso in acqua, allo sguardo sembra piegato. Lo stesso vale per il linguaggio”. Quindi ci vuole un rapporto distorto, diciamo, per arrivare alla verità?

Quello citato da Céline è un esempio tipico del carattere illusorio dei sensi: il bastone spezzato che a noi appare spezzato, ma in realtà, di per sé, ha un altro tipo di struttura. E quindi è stato variamente invocato per indicare come le sensazioni non possano, come dire, essere portatrici di verità di per sé e quindi sia necessario un discorso che sia in grado di correggerne l’apparenza fallace. Io credo che, in una certa misura, il discorso poetico e l’arte più in generale cerchino proprio di interrogare la spezzatura, di dare conto dell’effettività di quella spezzatura, di quella rifrazione nell’acqua. Darne conto in modo adeguato significa anche descriverne la modalità di presentazione, trovare le parole per descriverla, anche attraverso la deformazione del linguaggio di cui parla Céline. Cercare di capire in questo senso la verità della spezzatura, la sua non eliminabilità, e in che cosa ci convoca, in che cosa ci mette in questione. Il punto non è semplicemente la struttura del bastone, il suo essere ficcato nell’acqua, ma è anche la realtà di quella modalità dell’apparire, che è appunto il suo apparire spezzato se messo in un corso d’acqua o in uno specchio luminoso o nella rifrazione del linguaggio.

E secondo te come si può conciliare tutto questo con quello che diceva Platone, ovvero che la poesia o la letteratura o l’arte in generale è l’antagonista della filosofia, e quindi della ricerca della verità?

Ritengo che questa fosse una contesa per la verità, per il suo monopolio. In qualche modo la mossa platonica, che separa il dominio del vero da quello dell’apparenza, è ciò che il discorso poetico mette in questione, questo dualismo: e quindi in questo, diciamo, la poesia è una critica dell’idea filosofica di verità. Questo nodo ha a che fare con l’idea di ineliminabilità dell’apparenza, dei fenomeni, della dimensione temporale, della dimensione corporea. Il mio primo libro s’intitolava Gli aspri inganni. Nel tempo ho capito che questo libro aveva a che fare con questa dimensione, con l’inganno dell’apparire. Il richiamo a questa “asprezza” aveva a che fare con la non ineliminabilità, ma anche, se vogliamo, con la durezza di questa non eliminabilità dell’apparire. Non intendo dire che nel discorso poetico ci sia una soluzione dal problema posto dal discorso filosofico. Tendo a dire che c’è un’altra modalità di approccio, e che anche questa pluralizzazione, cioè il fatto stesso che ci sia una battaglia per il vero, in cui diversi discorsi si contendono l’oggetto, ha a che fare con il fatto stesso che la verità accade in modo molteplice, in modo non unitario o che va ovunque, e quindi non si lascia irreggimentare. La portata conoscitiva va al di là dei discorsi che possiamo articolare. C’è un altro mio libro che s’intitola Tutto accade ovunque: dell’andare ovunque come qualcosa che non rispetta i confini dei discorsi.

Quindi, come tu dici in Autorizzare la speranza, se mai un tentativo di verità sta nell’interazione tra l’uomo e il mondo. La parola diventa il mezzo per questo tentativo di vero. Più che in una parola fissata, il tentativo sta in questo gioco del divenire?

In un certo senso sì. Peraltro non credo che la poesia (o la poesia in senso plurale, tra le varie pratiche poetiche) sia semplicemente questione di parola. Certo il linguaggio, per lo meno nella poesia lineare, verbale, è un elemento non prescindibile, però il linguaggio è un medio. Non è né il fine né l’orizzonte. È nel linguaggio che la poesia accade. Un medio che tende a qualche cosa d’altro. Ed è per questo che, in fondo, anche la maestria linguistica, l’essere capaci di usare virtuosamente il linguaggio, nel modo più raffinato, più consapevole, nel modo più estroso, non è mai garanzia di riuscita. Ci sono scrittori straordinariamente dotati, pensiamo a Hofmannsthal o anche a Rilke, il quale avverte, a un certo punto, la necessità di fermarsi, capisce che il principale ostacolo alla maturazione della sua poesia è la sua abilità linguistica, eccessiva, estrema, tanto da diventare un velo, un ostacolo all’espressione. Questo all’insegna del fatto che la poesia parla attraverso il linguaggio, tuttavia non è solo cosa di parola. Ha una tensione che, appunto, attraverso il linguaggio tende a dire altro, a raggiungere, se vogliamo, un’altra dimensione.

Ciò che dici mi fa pensare a Montale. Hai amato Montale?

Beh… sicuramente… come tutti…

La tua idea di approccio alla parola mi fa pensare a Montale, ovvero il tentativo di definire qualcosa di indefinibile.

C’è un uso del linguaggio, della parola che ha un dimensione, se vogliamo, indefinita secondo altri usi già standardizzati. C’è un elemento di vaghezza, un’indeterminazione. Non nel senso che il linguaggio in poesia debba essere vago o impreciso, ma nel senso che, anche dove venga usato un linguaggio molto dichiarativo o anche scientifico in poesia, questo tende a dislocare l’uso ordinario di quello stesso linguaggio dichiarativo o scientifico. Un elemento non tanto di indeterminazione quanto di rideterminazione. Però questa rideterminazione, o questo far leva su ciò che c’è di indeterminato nell’uso determinato del discorso, nell’uso reale del linguaggio, ecco, tutto questo non è semplicemente un discorso sul linguaggio. A differenza di quella corrente della teoria letteraria del Novecento, che con Jakobson e altri tende a fare della poesia un discorso sul linguaggio – dove si esprimerebbe la natura auto-referenziale del linguaggio – penso che questo discorso sulla auto-referenzialità non colga il proprium dei discorsi poetici, che aspirano invece a un elemento di alterità e quindi a qualcosa che trascende il linguaggio, che ha a che fare con le cose, come direbbe Rilke, che non si lascia ridurre a una dimensione linguistica. La poesia è un attraversamento della stratificazione del linguaggio, quindi dei suoi vari spazi: il suono, la parte visiva, ritmica, tutti le componenti di cui è fatta la lingua, che sono però i catalizzatori, gli attrattori, di qualcosa d’altro, in cui la poesia transita piuttosto che arrestarsi.

Leggendo le tue poesie mi ha colpito una cosa: l’assenza, come dire, dell’io. Anche quello che dici riguardo la poesia, mi pare che si tratti di un tentativo conoscitivo delle cose, come se l’io fosse mescolato tra le cose.

Diciamo che nella mia poesia, nella mia scrittura non è che l’io sia assente, ma è dislocato nel mondo. Non mi interessa tanto l’io come uno spazio interno, come una dimensione interiore. Nello stesso tempo credo che ci siano delle posizioni soggettive. C’è qualcuno che è classificabile come un “io” ma non è, come dire, il cerchio che racchiude tutto ciò che si dà nella scrittura. Non è l’orizzonte. Non l’orizzonte degli eventi, ma un evento tra gli altri. Quindi, da questo punto di vista, credo che ci sia un errore fondamentale in quelle teorizzazioni, anche in poesia, che dichiarano la morte dell’io a parole, quando poi lo mettono ovunque in modo latente, senza prendersi la responsabilità di darne conto. Nello stesso tempo però mi interessa, come dire, non fare dell’io il punto di convergenza del mondo: quindi, in una certa misura, se ci deve essere il discorso di un io (che non necessariamente ci deve essere) vedere come questo “io” è incastrato nel paesaggio. È un elemento del paesaggio: un paesaggio che include l’io, gli altri, le cose; qualcosa che s’inserisce nel quadro, piuttosto che essere la cornice.

Un’ultima domanda voglio fartela sul linguaggio. Il linguaggio in poesia è naturalmente fondamentale, però, oggi, in un mondo dominato dai mass-media, dai social eccetera, un mondo in cui il linguaggio è molto usato ma anche ridotto, privato in qualche modo di significato. Il nostro è un mondo in cui tutti scriviamo tantissimo (tra messaggi e quanto altro) eppure la parola sembra aver perso di forza significante; almeno, questa è la mia impressione. La poesia che posizione può avere in un mondo in cui il linguaggio è frantumato?

La pratica della poesia nelle sua varie forme può valere come un reminder del fatto che ci sono possibilità ulteriori nel linguaggio. Quindi, da un lato, è preziosa anche nella sua capacità di inglobarne gli usi correnti, dominati dai mass-media e dai social. Una parte della poesia di avanguardia, in qualche modo, cercava di essere mimetica rispetto agli usi frammentati e reificati del linguaggio: riproducendo il linguaggio della comunicazione, quello della pubblicità, in modo a volte mimetico, a volte ironico, a volte parodistico. Questa mimesi è oggi entrata in crisi nel suo potenziale critico. Quindi, a mio avviso, il punto non è tanto riprodurre in poesia i linguaggi contemporanei, ma piuttosto mettere in atto forme di riuso, riutilizzarli per tenere aperto il campo espressivo. Credo che la poesia, nelle sue molteplici pratiche, possa giocare un piccolo ruolo nel tenere vive, appunto, le possibilità dell’espressione, ma anche nel farci vedere come queste possibilità non siano qualche cosa che passa semplicemente attraverso la negazione degli usi correnti, attraverso il rifiuto degli usi reificati e massmediali del linguaggio. Perché forse l’elemento più vitale sta nel riuscire a far circuitare questi diversi usi, metterli in contatto. Dal mio punto di vista credo che un elemento di vitalità della poesia possa consistere nella sua capacità di attraversare questi campi, senza farsi ridurre ad essi; di appropriarsene e provare a rimescolarli in un’operazione che non sia semplicemente mimetica. Credo che non si possa costruire un discorso della poesia semplicemente in contrapposizione al linguaggio della prosa del mondo. È riscrivendo la prosa del mondo e la prosa della lingua, nelle sue componenti contemporanee, e lasciandosene attraversare che la poesia può giocare le proprie carte. Queste carte hanno comunque a che fare con lo sparigliare il gioco. Capacità che solo alcuni hanno, di creare nuovi giochi. E in questo senso quindi di aprire ulteriormente il discorso. Quindi penso che questa funzione di riapertura del discorso, di messa in circuito delle parole con le cose, possa creare il quid del confronto con un linguaggio che naturalmente ha una sua storia, una sua tradizione anche di verticalità, di decantazione, con linguaggi che percorrono altre dimensioni, più orizzontali, più immediate o più funzionali. Non è che la poesia si qualifichi semplicemente in contrapposizione all’uso funzionale del linguaggio o all’uso massmediatico del linguaggio. In realtà nessuno di questi usi deve essere estraneo all’uso poetico del linguaggio. La poesia si può giustificare nella misura in cui sa renderci conto di questi altri usi, nella misura in cui riesce a riusarli e incorporarli. Cosa significa incorporali? Beh questo non si può dire a priori. Possiamo deciderlo soltanto vedendo che una qualche poesia è riuscita nel fare questa operazione. Che cosa ci può dire di ulteriore, che cosa ci può far vedere, è l’opera stessa.

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